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Il cibo a km zero è una questione complessa

Scritto il 04-01-2017 da Ufficio stampa | Categoria: Prodotti tipici

Prima delle feste, che volgono alla fine, i nostri concittadini sono stati invitati da autorevoli maître a penser dell’enogastronomia a rinunciare alla frutta esotica proveniente da lontano ed a privilegiare i prodotti nazionali e la spesa a km zero. Un invito così ovvio da sembrare quasi superfluo.

Il cibo a chilometri zero ha molti buoni motivi. Permette di far conoscere a molte persone il problema di certe insensatezze del mercato agro-alimentare, dell’importanza di cercare un rapporto tra chi produce il cibo e chi lo consuma, di far sì che ci si domandi da “da dove viene ciò che consumo”. La stessa Cia ha promosso il progetto “La spesa in campagna” perché è convinta del valore economico e sociale delle filiere corte e cortissime, ma la vendita diretta, in azienda e nei mercatini, è un’opportunità in più per molte aziende, non una priorità strategica per rilanciare l’agricoltura nel nostro Paese.

Ma valutiamo la questione del cibo a chilometro zero anche alla luce dell’economia nazionale. È noto a tutti che noi italiani produciamo dell’ottimo cibo e dell’ottimo vino. Tutto il mondo ci riconosce questo pregio ed apprezza i prodotti italiani. Le nostre imprese agroalimentari, nell’attuale drammatica congiuntura economica, sopravvivono perché sono riuscite trovare importanti sbocchi all’estero grazie alla indiscutibile qualità dei nostri prodotti. L’Italia esporta massicciamente vino, frutta, pasta, formaggi e latticini, salumi e prosciutti, preparazioni di ortaggi-legumi-frutta, ecc. ecc.

Che succederebbe ai produttori di vino piemontese se tutti si mettessero a bere a chilometri zero? Un disastro. O se gli abitanti di Monaco di Baviera non comprassero più frutta italiana: buona, ma mi spiace, arriva da lontano…

C’è poi un’altra questione da non sottovalutare. Sostenere le economie dei Paesi poveri aiuta a porre un freno all’immigrazione selvaggia, uno dei problemi più gravi che in questo periodo affligge l’Italia e l’Europa. Niente più datteri dalla Tunisia? C’è il rischio che molta più gente, privata della propria forma di sostentamento, fugga da quel Paese e si imbarchi alla volta dell’Italia. Identico ragionamento vale per le arachidi importate dal Senegal, per gli ananas importati dal Ghana o dalla Costa d’Avorio e per i prodotti di molti Paesi del terzo mondo.

Il km zero è una questione molto più complessa di quel che appare.

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